Prefazione dell'autore

Una disciplina organica sull’espropriazione per p.u., che ponesse termine al caos legislativo e giurisprudenziale che si era negli anni accumulato, era da tempo auspicata. Un’esigenza divenuta pressante dopo che la Corte Costituzionale con la famosa sentenza n. 5 del 1980 aveva sancito l’illegittimità dei criteri di stima delle indennità per l’esproprio delle aree edificabili (sostanzialmente parificate alle aree agricole) di cui alla legge 22.10.1971 n. 865 e successive modifiche ed integrazioni. La c.d. "legge della casa" che si proponeva di rendere più accessibili i prezzi degli alloggi destinati all’edilizia economica popolare; ma nel 1974 i suddetti criteri di stima, fortemente riduttivi, erano stati estesi di fatto a tutte le espropriazioni.

La Corte Costituzionale nella sua rivoluzionaria pronuncia puntualizzava che se era vero che per la determinazione delle indennità di esproprio bisognava attuare un equilibrato contemperamento tra interesse collettivo e interesse privato, non si poteva comunque corrispondere agli espropriati un indennizzo puramente simbolico o addirittura "irrisorio". In ogni caso quali che fossero i criteri riduttivi adottati, pur sempre ispirati a principi di equità, si doveva comunque partire dalla considerazione del valore venale del bene in concreto.

La reazione politica non si fece attendere, e fu decisa e piuttosto irriverente nei confronti del giudice delle leggi: dopo appena sei mesi il Parlamento approvava una legge-tampone (di tamponi in materia se ne sono visti tanti, ma in gran parte si rivelavano peggiori del buco): la legge n. 385 del 1980, che riproponeva tali e quali i criteri di stima delle indennità dichiarati incostituzionali. Tuttavia le indennità così calcolate sarebbero state corrisposte "salvo conguaglio", in attesa dell’emanazione di una legge sostitutiva delle norme dichiarate illegittime, per la quale si fissava il termine di un anno.

L’anno venne rinviato per ben tre volte, con altrettanti decreti di proroga.

A quel punto, nuovo intervento demolitorio della Corte Costituzionale (sentenza n. 223 del 1983), questa volta a danno della legge-tampone; non senza spunti polemici nei confronti di chi aveva ideato quel grossolano espediente per sottrarsi ad una sua pronuncia.

Il buco legislativo divenne di dimensioni notevoli, così come notevole, per non dire incredibile, fu la lunga inerzia (circa 9 anni) di chi avrebbe dovuto porvi rimedio con la promessa legge organica sostitutiva. Tuttavia non si ebbe, nonostante la grande incertezza, un rallentamento e tantomeno una stagnazione delle iniziative espropriative.

La Cassazione aveva anzitutto puntualizzato che dal testo della sentenza della Consulta si doveva chiaramente dedurre che la nuova pronuncia di illegittimità costituzionale riguardava soltanto le aree edificabili, escludendo gli espropri delle aree agricole. E quanto alle aree edificabili, il problema della normativa da applicare per la determinazione dell’indennità venne agevolmente risolto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione con il riferimento alla legge del 1865 n. 2359; la legge "fondamentale" che non era mai stata abrogata e quindi "riviveva" nella situazione di vuoto legislativo che si era venuta a creare.

D’altra parte, le norme procedimentali rimanevano quelle della legge del 1971, a cominciare dalla competenza in unico grado della Corte d’Appello per i giudizi di opposizione alla stima.

Quanto sopra consentiva di portare avanti le procedure di espropriazione senza problemi, considerando anche che l’art. 13 della citata legge del 1865 stabiliva che i termini di inizio e per il compimento dei lavori e delle espropriazioni, fissati con espressa sanzione di inefficacia della dichiarazione di p.u. nell’ipotesi di omissione o di scadenza degli stessi, potevano -anche secondo la giurisprudenza- essere prorogati anche ripetutamente.

Ancora una volta veniva in soccorso degli enti esproprianti l’istituto dell’occupazione temporanea, creato e rimasto in vita proprio per le "esigenze" dilatorie. Nella specifica situazione lo scopo era di evitare il pagamento di indennità commisurate al valore venale del bene, così come previsto nella legge del 1865.

Anzi, per ovviare ai rischi connessi all’eventuale scadenza del termine quinquennale "invalicabile" dell’occupazione temporanea, si provvide con apposite leggi di proroga; non più facoltativa, come si era stabilito per la prima di dette proroghe, quella inserita nella legge n. 385 del 1980, ma obbligatoria, nel senso che -contrariamente alla regola- non occorreva un provvedimento prefettizio che ne giustificasse in qualche modo la necessità. Proroghe che si legavano l’una all’altra in attesa dell’avverarsi del preconizzato evento del sopraggiungere della legge organica sulle espropriazioni.

Vi furono alcune serie e ragionevoli proposte circa la misura delle indennità da stabilire, che avevano soprattutto l’obiettivo di porre rimedio al problema, sempre irrisolto, della disparità di trattamento tra cittadini espropriati e non espropriati, e di porre fine una volta per tutte alla genetica provvisorietà di tutte le leggi emanate in materia. Ma per i più il vero problema era quello di escogitare una legge che mantenesse ferma la sostanza della "legge della casa" e che tuttavia potesse passare al vaglio della Corte Costituzionale.

Il lungo ponte, per le ragioni anzidette non aveva creato apprezzabili inconvenienti. Era sufficiente che si continuasse a procedere con il rallentatore per l’offerta e la determinazione dell’indennità, non essendo peraltro stabilito per dette incombenze alcun termine tassativo. D’altra parte la legge del 1971 per le incombenze medesime aveva posto in essere un apposito sub-procedimento che non interferiva con il procedimento di espropriazione vero e proprio. Quanto all’eventuale fase di opposizione giudiziale alla stima, i rallentamenti, ovviamente, non era necessario provocarli, essendo ampiamente assicurati dal sistema.

Ma ormai erano non poche le cause dinanzi alla Corte Suprema nelle quali si chiedeva la conferma di sentenze che sulla base della vecchia legge fondamentale avevano disposto la corresponsione di indennizzi commisurati al valore di mercato delle aree edificabili, o ritenute tali per loro intrinseche caratteristiche; l’iter processuale di quelle cause sarebbe stato bloccato dallo jus superveniens di una nuova legge, che avrebbe portato, mediante un giudizio di rinvio, alla rideterminazione delle indennità secondo i sopraggiunti criteri.

E quindi in qualche modo bisognava provvedere, e si provvide.

Non fu proprio la legge organica promessa, ma un articolo di poche righe, il famigerato art. 5 bis inserito nel d.l. 11 luglio 1992 n. 333: "Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica", convertito in legge dall’art. 1 della l. 8 agosto 1992 n. 359 che, cominciando con il limitare drasticamente l’ambito delle aree che potevano qualificarsi edificabili, stabiliva per le stesse criteri di stima ricalcanti in qualche modo quelli fissati nell’art. 13 della legge 15.1.1885 n. 1882 "per il risanamento della città di Napoli". Criteri di stima che all’epoca si risolvevano in un vantaggio per i proprietari, mediando il basso valore di mercato di case fatiscenti con il coacervo dei fitti percepiti negli ultimi 10 anni, relativamente piuttosto elevati.

L’applicazione dei criteri della "legge di Napoli", con la sostituzione di detto coacervo con quello insignificante, della rendita catastale rivalutata, portava in pratica ad una forte riduzione, se non al dimezzamento del valore venale, allorché nel corso dei decenni che si susseguirono i criteri medesimi vennero a più riprese rispolverati per particolari espropriazioni.

Il motivo che induceva a richiamare quella legge tutta particolare ogniqualvolta si voleva ridurre, di fatto dimezzare, le indennità, è da ricercarsi nella circostanza che essa partiva dal valore di mercato del bene (vero o presunto) . Detto motivo è chiaramente pure alla base del richiamo alla legge "per il risanamento della città di Napoli" nel testo della legge del 1992 "per il risanamento della finanza pubblica", nella quale è previsto, effettuata la media tra il valore venale e il valore catastale, un ulteriore decurtazione del 40%.

A conti fatti si calcola che l’espropriante percepiva il 32% del valore attribuito al bene. Ma non è tutto: il percipiente al momento del pagamento

doveva subire una ritenuta fiscale del 20% su quel che restava dell’indennità a lui spettante, ed anche sugli interessi. Sempre poi che l’espropriato, nell’effettuare la denuncia ai fini I.C.I. non fosse incorso in un errore nella valutazione del suo immobile, errore cioè, su una stima che richiede notevole e approfondita conoscenza del mercato immobiliare.

Nel qual caso doveva subire il colpo finale dell’adeguamento dell’indennità a detta stima.

In definitiva, era tutt’altro che improbabile che il proprietario di area edificabile venisse a percepire un indennità addirittura inferiore a quella "irrisoria" stabilita dalla legge n. 865 del 1971 e successive modifiche; per cui in molti casi poteva essere per lui assai più conveniente il calcolo previsto per i terreni semplicemente agricoli.

Tutte le eccezioni di incostituzionalità della legge n. 359 del 1992 vennero rigettate dalla Consulta. In una normativa sugli espropri inserita nella legge finanziaria, in ultima analisi assumevano scarso rilievo gli eventuali, più o meno evidenti, contrasti con i principi della Carta costituzionale. Assumendo invece preminente rilievo i contingenti dati finanziari ed economici. E nel contesto della disastrosa situazione del bilancio dello Stato il "limite massimo del contributo di riparazione che nell’ambito degli scopi di interesse generale la P.A. può garantire agli interessi privati" poteva avvicinarsi legittimamente allo zero: una volta che si è ormai stabilito che l’equo indennizzo, che costituisce il cardine di tutti gli Stati democratici in materia di lesione del diritto di proprietà per motivi di pubblico interesse, è in Italia quello che comunque stabilisce la legge.

Si entra dunque nel campo della politica economico-fiscale nel quale, per ovvie ragioni, non possiamo addentrarci se non per alcune considerazioni rientranti nel tema.

Anzitutto ci sembra quantomai improprio, già di per sé, l’inserimento dei criteri di determinazione delle indennità di esproprio nel settore tributario, che peraltro è retto a sua volta da non equivoci principi costituzionali, che vengono così disattesi. Si ripropone, anche sotto tale profilo, la questione di disparità di trattamento, colpendo con un pesante balzello indiscriminata-mente quella parte di cittadini che casualmente incappano in un procedimento espropriativo, senza riferimento alcuno alla loro capacità contributiva e al principio del progressività dell’imposta (art. 53 Cost.).

La seconda considerazione riguarda la carenza di controlli sulla spesa pubblica: si trascura la priorità dei problemi essenziali mentre si impegnano invece ingenti mezzi finanziari per le "grandi opere", faraoniche o comunque dispendiosissime, di cui nessuno sente l’impellente necessità. Il Paese rischia così di assumere l’aspetto di un signore in marsina con le pezze sui pantaloni.

In questa sede ci importa soprattutto sottolineare le gravi disfunzioni che affliggono l’amministrazione della giustizia, per la carenza di adeguati mezzi finanziari e idonei provvedimenti legislativi, e alle quali deve attribuirsi buona parte del contenzioso passato e presente.

Un contenzioso, per quanto riguarda la materia di cui trattasi, che è stato incisivamente alimentato dalla retroattività di tutte le leggi che si sono succedute nel tempo.

E’ vero che il principio della irretroattività nel settore civilistico non ha copertura costituzionale, (anche se una deroga dovrebbe pur sempre rivestire il carattere dell’eccezionalità), ma è altresì indubbio che una legge retroattiva, oltre a ledere gravemente il diritto ad un giusto processo, costituisce in generale un grave sopruso per il cittadino espropriato, che si vede togliere improvvisamente ciò che una legge in precedenza vigente gli aveva consentito. Con gravi conseguenze per i processi in corso, per i quali l’intervento dello jus superveniens significava ricominciare daccapo, con nuove istanze, nuove perizie, nuovi mezzi di prova al fine di ottenere quel poco che rimaneva da percepire sulla base dell’ultima disposizione legislativa, riduttiva delle indennità, emanata.

Rileviamo come i criteri di determinazione dell’indennità posti "in via provvisoria" nella leggina del 1992 abbiano assunto il ruolo di normativa fondamentale di riforma economico-sociale nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento dello Stato (Corte Cost. 153/1995; 80/1996; 147/1999), anche se detta formula, a prima vista piuttosto enfatica, è stata usata per porre limiti alla competenza legislativa delle Regioni. E per tale motivo è stata eliminata dall’art. 5 del Testo Unico, dov’era stata inserita, a seguito delle sopravvenute novità nel campo della "devoluzione" alle Regioni di molte materie dapprima riservate alla legislazione statale, che hanno reso problematico ogni riferimento all’esigenza di applicazione uniforme di una qualsiasi legge su tutto il territorio nazionale.

Un anziano collega di studio raccontava, a proposito di retroattività, e di cosiddette riforme economico-sociali, di quel suo cliente operaio dell’Alfa Romeo di Arese che con i suoi sudati risparmi aveva acquistato un terreno al giusto prezzo di mercato per costruirvi una casetta per sé e per i figli, e che aveva dovuto rinunciarvi per la costruzione dell’autostrada Milano-Laghi. Quel terreno gli era stato espropriato per un’indennità pari a circa 1/10 del prezzo di acquisto, grazie alla sopravvenuta (ironia delle parole) legge "della casa".

Il Testo Unico in commento ha formalmente abrogato tutte le leggi precedenti in materia, ma nulla è sostanzialmente mutato.

In un primo tempo si era stabilito, in armonia con le disposizioni legislative precedenti, che la nuova normativa si applicava istantaneamente a tutte le procedure in corso. Ma poi a seguito di una energica levata di scudi da parte degli enti pubblici interessati, che lamentavano tra l’altro la mancanza di strutture per un rapido adeguamento, si è fatta salva la normativa previgente per gli espropri nei quali la dichiarazione di p.u. sia stata precedente all’entrata in vigore –più volte rinviata per vari aggiustamenti e ripensamenti– del testo definitivo. D’altra parte la retroattività del Testo Unico non avrebbe avuto conseguente di rilievo, a parte i non indifferenti problemi di tipo transitorio, visto che, come si è rilevato, sono rimasi immutati i criteri di stima delle indennità, sicchè non c’era più alcunché da togliere agli espropriati.

L’applicazione della normativa previgente si protrarrà per molti anni per i procedimenti amministrativi e i processi in corso, ma ciò ovviamente non significa che rimangano immutati gli orientamenti della giurisprudenza. E’ da ritenere anzi che il Testo Unico per alcune modifiche peggiorative nei confronti degli espropriati non potrà non esercitare sulla nuova giurisprudenza una vis attractiva.

In un ipotetica monografia dal titolo "I soprusi degli espropri nella legge e nella giurisprudenza" l’irrisorietà delle indennità previste per le aree edificabili e la retroattività delle leggi che si sono succedute nel tempo assumerebbero un ruolo di primo piano.

Notevole rilievo, sempre sotto il profilo dei diritti degli espropriati, assumono le disposizioni del Testo Unico che confermano la misura delle indennità stabilite dalla legge n. 359/92, in particolare per le aree edificabili, con la drastica eliminazione della c.d. edificabilità di fatto e le incisive decurtazioni a catena.

Tra l’altro sarebbe stato ragionevole abolire la riduzione delle indennità in ragione del valore denunciato ai fini dell’ICI, se è vero, com’è vero, che trattasi chiaramente di disposizione vessatoria e punitiva (cosi si è espressa la Corte di Cassazione in una sua ordinanza di rimessione alla Consulta con motivazioni ineccepibili). Detta disposizione viene ora non soltanto mantenuta, ma addirittura ricondotta al momento iniziale dell’offerta dell’indennità provvisoria; mentre prima si esigeva che il bene fosse già espropriato.

Ma anche per i fondi agricoli ci si discosta notevolmente dall’effettivo prezzo di mercato, non facendosi alcuna differenza tra quelli situati in aperta campagna e quelli in prossimità dei centri abitati, magari con la possibilità di poter agevolmente usufruire di servizi pubblici essenziali (allacciamento alle reti urbane di gas, acqua ed energia elettrica, trasporti, vie di comunicazione, eccetera).

Ma i soprusi più scottanti sono quelli connessi all’occupazione definitiva delle aree private in assenza di un regolare procedimento amministrativo.

All’originario pieno indennizzo, ad un certo punto si tentò di sostituire l’indennità prevista per le procedure regolari e, a seguito di un intervento di tipo "conciliativo" della Corte Costituzionale, si finì per attribuire al proprietario di aree edificabili un insignificante aumento del 10% sulla predetta indennità.

L’indennizzo previsto, espressamente anch’esso commisurato alle "possibilità legali ed effettive di edificazione", non è evidentemente pari all’obiettivo valore di mercato del bene. Peraltro l’area abusivamente occupata potrebbe essere stata preventivamente sottoposta dagli strumenti urbanistici a vincolo di inedificabilità.

E se il proprietario rifiuta l’indennizzo offerto, per la conseguente controversia viene confermata la competenza esclusiva del giudice amministrativo, al quale si potrà ricorrere perché ne stabilisca l’effettivo ammontare; e non più soltanto perché si pronunci sulla legittimità dell’operato dell’occupante.

In realtà il giudice amministrativo non ha esperienza in materia di risarcimento da fatto illecito, qual’è l’occupazione abusiva di terreni, tant’è che si stanno organizzando presso il TAR appositi corsi di aggiornamento.

Ma è soprattutto la procedura del TAR, che non consente così com’è, nonostante l’espresso richiamo al codice di procedura civile, di condurre un’adeguata istruttoria, nella prassi inconsueta, con nomina di c.t.u., ammissione ed espletamento di prove, deduzioni e controdeduzioni delle parti eccetera; quindi con più udienze, mentre attualmente i giudizi si esauriscono con una o al massimo due udienze di discussione (sospensiva e merito).

Tutto ciò rende più lontane ma anche assai meno concrete, le prospettive risarcitorie.

Altre ingiustificate limitazioni riguardano la permanenza delle "procedure acceleratorie" dinanzi ai giudici amministrativi. Ma il grave problema della lentezza dei procedimenti non si risolve sospingendo la rugginosa macchina della giustizia in falsi circuiti di alta velocità, senza neppure la predisposizione di mezzi e di personale.

Partendo dalla tradizionale distinzione tra termini perentori, posti a carico delle parti la cui inosservanza produce insormontabili decadenze, e termini ordinatori o sollecitatori che sono quelli che giudici e uffici giudiziari sarebbero tenuti ad osservare ma possono tranquillamente non osservare, dobbiamo concludere che detta speciale normativa sollecitatoria, sostanziandosi prevalentemente in una serie di termini rivolti ai giudici, non è idonea a realizzare le finalità che ci si era proposti.

Nel tentativo di adeguarsi ai principi stabiliti sul tema dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, i compilatori del testo unico hanno elaborato un sistema che è stato definito "acquisizione coattiva sanante; il quale in realtà rispetto al passato non presenta variazioni di rilievo, a parte l’arduo intento di poter rendere legittimi siccome "previsti e regolati" dalla legge, comportamenti intollerabili, e anche penalmente rilevanti (occupazione dei terreni se contro la volontà dei proprietari violenza privata, eccetera).

Tale intento è reso palese dalla modalità di determinazione dell’indennizzo risarcitorio per il quale peraltro sono previsti per l’ipotesi di ritardo nell’adempimento i soli interessi moratori, e non l’adeguamento alla svalutazione monetaria dovuta per legge e sempre riconosciuta in materia di "di fatti illeciti". Si concede una sanatoria anche per il futuro che si risolve in una specie di indulgenza plenaria a favore di coloro che l’abuso hanno posto in essere e anche di coloro che siffatti abusi porranno in essere. In ogni caso, una sanatoria non può riguardare futuri comportamenti. Guardando la situazione nell’ottica delle vittime, si dovrebbe quantomeno pretendere anche il risarcimento del danno morale a loro favore, nonché la previsione di adeguate sanzioni a carico dei responsabili dell’illecito.

Circa la questione della "deflazione del contenzioso", spesso invocata a giustificazione di provvedimenti abnormi, anche nella materia di cui trattasi l’attuale tendenza è quella di dare sempre più spazio alla giustizia privata di tipo arbitrale, che nella sostanza si traduce nel dare sistematicamente una parte di torto a chi ha ragione e una parte di ragione a chi ha torto e, per converso nel progressivo smantellamento delle strutture giudiziarie statali.

Il che ripropone la tecnica di quella donna brutta che, per superare il complesso che l’affliggeva non aveva trovato migliore soluzione che fare in frantumi la specchio.

Dal punto di vista procedurale, alcune innovazioni tendenti ad assicurare una maggiore partecipazione al procedimento da parte degli interessati, elargite con una mano sono state subito tolte con l’altra.

Ci riferiamo soprattutto alla previsione di troppe eccezioni, gravemente penalizzanti, destinate a diventare regole; in particolare le eccezioni alla procedura ordinaria in tema di notifica dei più incisivi provvedimenti, a cominciare dai vincoli preordinati all’esproprio, giustificate con la solita particolare urgenza, talvolta stabilita addirittura per legge, ma più spesso rimessa alle generose interpretazioni dell’espropriante.

Si era finalmente giustamente prevista la necessità di eliminare l’istituto dell’occupazione temporanea e d’urgenza, avendo ormai soltanto lo scopo di protrarre alle calende greche la conclusione dei procedimenti espropriativi e relativi indennizzi. Ma, poi nelle modifiche alla prima versione del Testo Unico lo si è reintrodotto soprattutto per la difficoltà, prospettata dagli enti dai quali vengono solitamente condotte le espropriazioni, di predisporre i frazionamenti catastali; difficoltà, amplificata fino all’assurdo.

Una pubblica amministrazione diligente e ben organizzata deve essere in grado, già nella redazione del piano di esproprio di avere le idee ben chiare sull’estensione e la tipologia dei terreni occorrenti, e con il progetto dovrebbe poter presentare le planimetrie con i necessari frazionamenti. Per quanto, poi, riguarda le modifiche che si rendessero necessarie in corso d’opera, nella maggior parte dei casi peraltro marginali, basterebbe predisporre una rapida e semplice procedura per adeguarvisi.

Anche l’intento di eliminare l’occupazione temporanea e d’urgenza si è dovuto sacrificare, insieme con altre apprezzabili iniziative del testo unico sull’altare delle torpide e impenetrabili burocrazie imperanti.

La materia dell’espropriazione per pubblica utilità continuerà purtroppo a richiamare l’immagine dantesca della "nave senza nocchier in gran tempesta", con le insufficienze, le contraddizioni, la precarietà degli indirizzi e delle scelte legislative e giurisprudenziali.

Non basta, ovviamente, che una legge sia ritenuta costituzionale perché si possa affermare che trattasi di una legge buona ed equa.

Chiudiamo con il sottolineare che una incontrollabile proliferazione legislativa, conseguente al disinvolto e irragionevole ampliamento delle autonomie regionali, aggiungerà per gli operatori dei diritto nel settore, non poche rilevanti difficoltà alle molte esistenti.